U stagninu
Il mestiere che resiste, che un tempo era molto praticato è quello dello stagnino “stagnaru”. L’artigiano aveva due luoghi di esecuzione della sua professione; nel laboratorio e nelle strade. Il lavoro consisteva nel fare le saldature a stagno per “aggiustare” vari tipi di recipienti metallici; pentole, pentoloni “quarare, contenitori di lamiera per l’acqua da usare nelle abitazioni “quartare, ma soprattutto nel passare o ripassare uno strato di zinco all’interno delle pentole di rame. Quest’ultima operazione era necessaria per poter utilizzare le suppellettili di rame, perchè esso rilascia una sostanza tossica a contatto con gli alimenti, lo strato di zinco creava un sicuro isolante. Gli arnesi che erano usati dallo stagnino erano: delle grosse forbici per tagliare le lamiere da utilizzare per rattoppare, un ferro per fondere lo stagno ed applicarlo nei posti dove era necessario, la forma di questo arnese era più o meno quella di un martello di ferro con la parte finale del manico composta di materiale termoisolante in considerazione del fatto che la parte metallica veniva immersa nella brace incandescente, delle barrette; di una lega di stagno e piombo (per le saldature dolci) di una lega di zinco rame e piombo (per le saldature forti), dei martelli di varia dimensione per sagomare i rattoppi di lamiera. Il metodo di saldatura sfruttava la diversa fusione dei metalli, il ferro aveva la stessa funzione dei moderni saldatori per i circuiti elettrici, ma a differenza di questo era riscaldato col fuoco quindi strumento indispensabile per gli stagnini era un fornello per il fuoco, che spesso era una normale latta di quelle usate per le riserve alimentari, la latta era riempita di carbone, al quale si dava fuoco fino a ridurlo in brace.
U Siggiaru
Quella del siggiaru era un’attività lavorativa semiprofessionale, in quanto integrata periodicamente con attività consimili. Oltre che costruttore di sedie, quest’ultimo, svolto per le strade dei paesi e dei quartieri urbani. Il lavoro di costruzione di una sedia era costituito da due fasi distinte. La prima consisteva nella sagomatura, nell’intaglio e nell’incollaggio delle aste di legno lavorate variamente (ncavigghiari i seggi era il modo di intendere complessivamente questo complesso di operazioni). La seconda fase, spesso riservata alla collaborazione dei membri della famiglia, moglie e figlie in primo luogo, consisteva invece nell’intreccio e nella definizione del fondo della sedia (ntranari i seggi era l’espressione usata per indicare questo secondo complesso di operazione). L’abilità dell’artigiano si manifestava nella sicurezza con cui incideva e rifiniva i singoli elementi, al fine di poterli successivamente assemblare senza alcuni intervento correttivo. Nella tessitura del fondo della sedia si manifestava invece, accanto all’abilità, il gusto delle decorazioni e delle varianti ad un modello sostanzialmente unitario.
U Scarparu
Il mestiere del calzolaio “scarparu”, è un mestiere antico e per molti versi in antitesi con i dettami della vita moderna, infatti esso consisteva e consiste per chi lo esercita, nel costruire scarpe su misura (che si rivelano “indistruttibili”), ma in ciò che egli si dimostrava prezioso per le esigue finanze delle famiglie contadine era nel lavoro di aggiustare le scarpe, risuolare, mettere i sopratacchi e ricucire le parti che via via andavano sdrucendo. La materia prima utilizzata dal ciabattino è in relazione al tipo di lavoro e all’uso che si farà delle scarpe. Se deve fare delle scarpe che serviranno per una occasione, la pelle sarà delle più pregiate e le rifiniture molto più curate, le scarpe da lavoro saranno costruite con un principio che si ispira alla robustezza ed alla solidità. Infine se deve fare un lavoro di trattamento della scarpa (risuolatura ecc…) il materiale che una volta si usava era il cuoio duro, mentre oggi si è più portati ad usare materiale di gomma. Gli attrezzi, che sono gli strumenti indispensabili al suo lavoro, che in parte non si sono modificati sono, delle forme in ferro di varia dimensione che servono per inserirci le scarpe un caratteristico ed affilatissimo coltello “u trincettu”, il martello anch’esso dalla forma caratteristica, tenaglia, lesina, spago, aghi, cera, pece, vetro per levigare le suole, e tutta una serie di piccoli chiodi “a siminzedda” , il tutto sparso su un basso tavolo da lavoro “u bancareddu”. A completare un lavoro artigianale ben fatto; la solerzia, la pazienza e la passione dell’artigiano.
U Conzapiatti
Nei tempi passati capitava spesso che pentole, recipienti da cucina, piatti, brocche, giare, ecc. essendo fragili perché fatti di creta cotta, se sottoposti agli urti, si rompevano. Nelle tasche delle famiglie vi erano pochi soldi e quindi non si poteva affrontare la spesa per comprare dei nuovi, e allora si aspettava che passasse u conzapiatti per farli riparare, e così per ogni cosa fatta di terracotta.
U’ Conzapiatti! Arrivau ù Conzapiattii!!!” L’omino gridava con tutto il fiato che aveva in corpo per annunciare la sua presenza e cosi raccogliere l’eventuale lavoro. Le donne si precipitavano a raccogliere ciò che era rotto e uscivano in strada per farseli aggiustare. U conzapiatti chiedeva se poteva avere una sedia e sistematosi in un punto della strada iniziava a lavorare sotto gli occhi attenti della donne che in ogni modo cercavano di far dare meno punti possibili per risparmiare sul prezzo. Terminata la fatica si passava al compenso pattuito in precedenza e che dipendeva dal numero dei fori eseguiti: generalmente negli anni 30-40 ù Conzapiatti esigeva un soldo per ogni foro;e, considerato che 20 soldi corrispondevano a una lira,dieci fori costavano mezza lira.
Quando non c’erano soldi ci si metteva d’accordo e si barattava il lavoro con roba da mangiare;qualche etto di formaggio,un po’ di fagioli o di ceci,o anche delle verdure.
U conzapiatti per fare il suo lavoro, si serviva di un trapano particolare composto da due aste di legno disposte a croce, della lunghezza di circa cinquanta centimetri e del diametro di due centimetri e mezzo ciascuna, un filo di spago e una punta d’acciaio. La prima asta, verticale, rotonda e liscia, era forata nell’estremità superiore per lasciar passare lo spago mentre, all’estremità inferiore, aveva montata una palla o una ruota abbastanza pesante, sulla quale era innestata una punta d’acciaio per forare la terracotta.
La seconda asta, disposta trasversalmente alla prima, era più piatta al centro e più larga, con un foro attraverso il quale passava l’asta verticale ed era forata ad entrambe le estremità per legarvi lo spago. Quando il rudimentale trapano era montato, si faceva girare l’asta verticale, mentre si azionava su e giù quella orizzontale: favorito dal peso, il trapano girava veloce, ora in un senso e ora nell’altro e la punta forava la terracotta.
Dopo aver praticato i fori in corrispondenza sull’uno e l’altro pezzo, u conzapiatti passava uno strato di mastice di quei tempi sulle parti slabbrate dei cocci, per evitare perdite di liquidi (sugo, brodo, ecc.) e, infine, “cuciva” le parti con filo di ferro, che intrecciava e stringeva con la tenaglia. Il piatto o qualunque altro oggetto di terracotta, era così pronto per essere riutilizzato. Certamente non era igienico ma non cerano altre soluzioni perché non c’erano soldi a disposizione delle famiglie.
La povertà era grande!