PERSONAGGI DELLA GELA ANTICA

archestrato gelaLA LEGGENDA DI ISMENE

Nell’antica Gela, viveva nell’acropoli una ragazza di nome Ismene, figlia di Clizia e Imeneo, nobili per discendenza familiare, tant’è che quest’ultimo era comandante di uno squadrone della cavalleria geloa.

La mamma, quando era in dolce attesa, andava ogni giorno, finché lo poté fare, nel piccolissimo tempio che si trovava un pò lontano, fuori le mura della città, a portare piccoli doni e chiedere la protezione delle dee Demetra e Kore (protettrici della maternità) per quella creatura che portava in grembo.

Essa era cresciuta tra mille attenzioni della madre, la quale le aveva trasmesso l’amore per le cose sacre, in particolare della dea Estia, protettrice del focolare domestico.

Il padre era orgoglioso e un pò geloso della bellezza di Ismene e cercava di proteggerla dalle insidie della vita. Le permetteva di uscire di casa per recarsi al tempio di Estia, ma sempre in compagnia della madre.

ismene gelaCresciuta in questo sano ambiente, ella era portata a vedere solo le cose belle che la vita le potesse offrire e come tutte le ragazze della sua età si domandava che cosa gli dei le avessero riservato per l’avvenire. Con questi pensieri si addormentava ogni sera, finché una notte fece un sogno particolare. Si trovava in aperta campagna sul greto di un fiume la cui acqua scivolava chiara e quieta verso il mare, la chiarezza della luce, complice un cielo terso nel cui azzurro si percepiva una profondità infinita, rifletteva la sua vitalità su quell’acqua dispensatrice di vita, in essa nuotavano pesci in gran quantità e trovavano sostentamento e refrigerio tantissimi animali.

Sentiva le rane gracidare.

In lontananza, al limitare della piana si stagliavano, in forma semicircolare, dei bellissimi colli tutti ammantati di verde, ne fu subito attratta da una forza misteriosa e incosciamente si mise a camminare in quella direzione.

Appena arrivata ai piedi del colle più vicino notò degli alberi giganteschi, i rami degli alberi si toccavano l’un l’altro e formavano delle volte alte e lunghissime e per terra vi erano dei camminamenti naturali.

Incuriosita, si addentrò.

Quel luogo sprigionava vita da tutte le parti, sia sugli alberi che nel sottobosco. Già, quello era un bosco.

Sentiva i richiami degli uccelli e le grida della selvaggina, ma un suono particolare la colpì e si mise ad andare dietro a quel suono. Non riusciva a capire a quale animale appartenesse quel suono, non l’aveva mai sentito ma era come attrazione fatale, non riusciva a staccarsene.

Camminò un bel po’ dietro quel suono finché improvvisamente si trovò tra due alture al limitar del bosco.

Quel passo era sbarrato da un gigantesco portone, tutto in oro massiccio cosparso di pietre preziose e per battenti aveva due grossissimi diamanti. Non riusciva a tenere gli occhi aperti per lo splendore che sprigionava il portone e istintivamente alzò gli occhi verso il cielo.

Sulla sommità del portone, a fatica, lesse “valico della felicità” e guardando ancora più su notò che un arcobaleno sormontava quelle due alture, si meravigliò nel vederlo perché non ricordava di aver incontrato della pioggia durante il suo cammino, quell’arcobaleno le infondeva un senso di gioia, di pace e tranquillità.

Aspettò che il sole girasse per non essere accecata da quella sfolgorante luminosità, si avvicinò al portone, prese il battente di diamante e lo batté con grande forza. Al terzo battito il portone prese ad aprirsi.

Ciò che i suoi occhi videro era qualcosa di speciale, nessun occhio umano aveva mai visto tanta bellezza, rimase ferma e sbigottita, non riusciva a muoversi mentre gli occhi scrutavano quelle meraviglie, la mente era tutta un subbuglio di sensazioni e in quel mentre non si accorse che l’arcobaleno pian piano scendeva dal cielo per distendersi ai suoi piedi.

Risentì quel suono che l’aveva guidata in quel posto e fece qualche timido passo in avanti, a quel punto lentamente il portone si richiuse alle sue spalle e lei si trovò a camminare sopra l’arcobaleno.

Che città, le abitazioni erano fatte di marzapane e zucchero filato, sopra l’ingresso di ogni casa vi era scritto il casato a cui apparteneva in oro zecchino e le mura delle case tinte tutte con lo stesso colore ma con intensità diversa cosicché alla fine della via erano presenti tutti i colori, notò che le scale erano fatte di bambagia e le persone che vi salivano non facevano fatica perché ognuno era dotato di piccole ali ai piedi. Pensò che quelle case al primo urto rovinassero per terra ma non era cosi perché vide che gli abitanti costruivano una casa nuova per una nuova famiglia e reggeva il peso di tante persone, non vedeva materiale per costruzioni ma un grande e strano recipiente dove prendevano tutto quello che vi era di bisogno, non sporcavano niente.

Le strade erano di colore diverso una dall’altra e si domandò il perché, si avvicinò e notò che erano fatte di fiori, ogni strada un tipo di fiore diverso e la via prendeva il nome di quel fiore.

Tutti vestivano con abiti eleganti, tessuti leggeri e confortanti, le donne si distinguevano per i veli che portavano sopra gli abiti ognuna di forma e colore diverso. Dalla forma e dal colore si riconosceva la famiglia di cui facevano parte.

Camminando per la città vide uno spiazzo abbastanza grande dove si svolgeva il mercato giornaliero, vi era di tutto, dalle stoffe ai ricami, dai manufatti artigianali ai prodotti della terra e tutti erano intenti a mostrare e promuovere i prodotti delle loro fatiche, ogni cosa costava niente, in una parte dello spiazzo volteggiavano abilissime danzatrici al suono di bravissimi suonatori di flauti, pifferi e particolarissimi tamburini di ogni forma e grandezza.

Com’è strano e bello questo posto pensava Ismene e mentre stava per riavviarsi le si affiancò una biga trainata da due cavalli bianchi, l’auriga fermò il mezzo, per conoscere questa fanciulla che sembrava non essere del posto, e la invitò a salire sulla biga vicino a lui. Lei dopo un attimo di riflessione sali e la biga prese a muoversi prima al passo e poi ad un buon trotto. L’auriga cercò di sapere chi fosse quella ragazza ma lei non rispondeva, era tutta presa ad ammirare i luoghi cui attraversava.

L’auriga rimandò a dopo le presentazioni e si mise a descrivere ciò che incontravano, i palazzi pubblici, le residenze dei personaggi che governavano la città, i giardini, le fontane e tante altre cose ancora. Tutto ciò che era pubblico era impreziosito con dei fregi. I palazzi pubblici, si distinguevano per i monumenti e le decorazioni in oro, argento e pietre preziose, quelle dei governatori, i giardini e le fontane per i monili d’argento e alberi d’alto fusto tutt’intorno.

Ismene non poté farne a meno di dire al suo cavaliere che in quella città tutto le sembrava strano, oh no!, gli rispose l’auriga qui è tutto naturale, questa è la città della felicità, qui non esiste la rivalità non è di quì la gelosia e la bramosia.

Spiegando, descrivendo, parlando e discutendo l’auriga non si accorse che dopo l’ultima curva l’arcobaleno sotto di loro non c’era più e la biga prese a correre su un piano sterrato irto di sassi e avvallamenti che la faceva sobbalzare finché una ruota prese un sasso più grosso, la biga volò in alto e poi ricadendo si rovesciò più volte. Ismene dopo la caduta perse i sensi. Quando riavvenne vide che l’auriga era ancora per terra e non si muoveva, si avvicinò e notò che un fiotto di sangue gli usciva dalle narici. Cerco di farlo rinvenire, provò ad alzarlo ma inutilmente, non dava segni di vita. Disperata si guardò tutt’intorno per vedere se c’era qualcuno a cui poter chiedere aiuto.

Erano soli.

Ma non disperava, cercò di alzarsi per correre a chiedere aiuto ma non poté, le gambe che fino ad un istante prima erano agili come quelle di una gazzella non erano in grado di fare più un passo, non li sentiva più. Allora tentò di gridare per farsi sentire da qualcuno, guardò indietro, la bellissima città che aveva visto non c’era più.

D’un tratto si accorse che l’orizzonte si copriva di nero, pensò che stava per avvicinarsi un maltempo ma quando quel cielo nero fu su di lei un brivido le passo per tutto il corpo, quel nero che oscurava il cielo non erano nubi ma uccelli, erano avvoltoi che scendevano nella sua direzione.

Spaventata cercò di fuggire, inutilmente, non era in grado di muoversi.

Quando gli avvoltoi furono sopra la sua testa le usci dalla bocca un fortissimo grido di raccapriccio e si svegliò.

Era spaventata e sudata.

Raccontò tutto alla mamma di quel strano sogno.

Sono sogni di fanciulla la rassicurò la mamma mentre l’abbracciava e l’accarezzava, a questi sogni non si deve dare importanza, quando stasera viene papà abbraccialo forte e vedrai che con il suo calore e la sua forza ti farà dimenticare tutto questo.

Quell’abbraccio non avvenne mai.

L’aria fu squarciata da imprevisti squilli di corni e dai suoni dei gong, davano l’allarme del pericolo imminente.

La città si trovò sotto assedio.

Lo squadrone di Imeneo era in prima linea ad affrontare il nemico in campo aperto e si coprì di gloria ma il prezzo di tanta gloria fu troppo alto, lo squadrone perse in battaglia un gran numero di cavalieri geloi e con essi il suo comandante.

Durante l’assedio Clizia ed Ismene non si risparmiarono, Clizia stava sopra le mura ad aiutare gli anziani a preparare le armi per rifornire l’esercito geloo, Ismene si prendeva cura dei feriti e l’assisteva con grande dedizione. Le mura della città erano diventate la loro seconda casa. Clizia mentre era sopra le mura ad incitare i soldati fu colpita da una freccia nemica alla gola e Ismene si trovò sola.

Rifiutò di andare con le altre donne in un luogo sicuro, dormiva pochissimo, oltre a curare i feriti, sostituì la madre sopra le mura. Una notte fu organizzato un viaggio per mettere in salvo i ragazzi, a guidare la spedizione oltre ai soldati vi era un’anziana signora che portava in braccio un bimbo, arrivati sul litorale stavano per salire su una barca quando Ismene notò quel bimbo e ne fu attratta, si avvicinò e domandò all’anziana signora chi erano i genitori di quel bimbo e come si chiamava, l’anziana signora rispose di non conoscere i genitori ma di sapere come si chiamava il bimbo.

Si chiamava Euclide.

Quei ragazzi che tornavano in Grecia erano una speranza, per un domani non lontano, quando la vita sarebbe tornata alla normalità, li avrebbe visti ritornare per dare lustro alla loro terra, ma non tutti ritornarono.

Le incursioni nemiche si erano fatte sempre più frequenti e riuscirono a conquistarsi un passaggio tra le mura ed entrare in città. Il campo dei feriti era proprio vicino a quel passaggio ed Ismene li ebbe subito di fronte. Così trovò la morte Ismene, trafitta da una lancia nemica al cuore mentre stringeva in mano un pietra con cui cercava di colpire il nemico per difendere la sua Patria. L’ombra dei suoi cari l’avvolse formando uno speciale scudo, invisibile, attorno a lei affinché gli invasori non ne facessero scempio. La città, anche se ferita, riuscì a salvarsi ed i superstiti non dimenticarono quella ragazza. Quando gli anziani raccontavano le gesta delle donne geloe, narravano di Ismene, simbolo della bellezza, delicatezza, altruismo, coraggio, ardimento e purezza di sentimenti.

Fonte: Salvatore Ventura

APPOLLODORO

Sappiamo da più fonti che il poeta comico, autore di commedie, era di Gela; la Suida ci riferisce che visse al tempo di Menandro: altro poeta comico ateniese del IV, III secolo a.C.
Apollodoro scrisse diverse opere, delle quali ci rimangono solo i titoli e si ispirò molto ai lavori del conterraneo Filemone. Eccolo citato direttamente dalla Suida:
“Apollodorus, Gelous, Comicus: Eodem tempore vixit, quo Menander Comicus. Ejus fabulae sunt; Apocartercus, 5 Philadelphi, Deusopoeus, Hieria, Grammatodipus, Pseudajax, Sisiphus, Aeschrion”. (Suida, Lexicon Graece & Latine, tribus voluminis, 1705)
Ed è anche con frasi come la seguente di Diodoro che si viene a sapere della esistenza di un uomo di lettere, ed il testo antico ci appare come una rudimentale macchina del tempo, che vaga invitando a navigare in ricerche senza fine:
“Poco dopo questa pace, Dario, re di Persia appresso un regno di 19 anni lasciò questa vita; e gli successe Artaserse, suo figlio maggiore, il quale regnò 43 anni. Apollodoro dice, che fiorì in quel tempo il poeta Antimaco”. (Biblioteca, libro XIII, cap.XX; trad. C.Compagnoni, Pedone e Muratori, 1831)
Qualche frammento di Apollodoro ci dona Ateneo:
“Apollodoro riferisce: ‘Quando un uomo entra accolto nella casa d’un amico, egli può, Nicofone, accorgersi del benvenuto non appena varca la soglia. Il custode gli sorride, il cane scuote la sua coda e gli si avvicina, uno schiavo s’alza per conoscerlo e prontamente gli appronta una sedia, persino se neppure una parola durante tal tempo viene detta’” (3; c).
“Apollodoro di Gela cita la cisterna, usando la stessa parole che noi oggi usiamo per indicarla, ne’ La donna che lasciò suo marito: ‘Nel tuo selvaggio accesso d’ira tu hai slegato il secchio dalla cisterna, ed usata buona corda per i tuoi scopi”. (125, a).
(Ateneo, I Deipnosofisti, op. cit.)
Qualcosa di simpaticamente curioso ci riporta sempre Ateneo:
Protagoride, nel secondo libro delle sue Storie Comiche, raccontando il viaggio giù per il Nilo di re Antioco, ha qualcosa di ingegnoso da riferirci a proposito degli espedienti usati per godere di acqua fresca. Così racconta: ‘Durante le ore del giorno essi sistemano l’acqua al calore del sole, e al giungere della notte filtrano dall’acqua i primi sedimenti, per poi esporre l’acqua nuovamente all’aria in giare poste all’esterno, sul punto più alto della casa, poi, per tutta la notte due schiavi mantenevano umide le pareti delle giare bagnandole con acqua. All’alba quindi riportavano dabasso le giare, togliendo ancora i sedimenti, ottenendo così un liquido limpido e, comunque, salutevole'”.(Ateneo, 124, e, f; op. cit.)
Non sono molte oggi le persone che hanno avuto la possibilità di bere acqua conservata in giare di terracotta, noi siamo tra quelle e ne serbiamo un dolcissimo ricordo, per la sensazione avuta di benessere mai paragonabile a quella oggi data al liquido ed all’uomo dal diffusissimo – immeritatamente – PVC.

Fonte: Francesco Carubia

ARCHESTRATO DI GELA

(seconda metà del IV a.C.)

Vita

Di Archestrato sappiamo pochissimo, e tutto derivante da Ateneo, che nei suoi Deipnosofisti XE “Ateneo”  attinge, a piene mani, proprio da quest’autore che non conosciamo se non dalla sua opera.
Archestrato XE “Archestrato”  era di Gela, visto che mostra di conoscere bene la geografia dell’isola e le abitudini gastronomiche dei greci di Sicilia: in SH XE “SH”  176, 12-13 proprio il poeta siceliota mostra di disprezzare la cucina della sua patria, dicendo

Non sono buoni a preparare il pesce,
ma lo rovinano mettendo formaggio su tutto.

Questo parodo fu probabilmente contemporaneo di Aristotele, visto che nei suoi frammenti vengono enunciate alcune idee di sapore aristotelico, risalenti al 335 a.C. Quindi dovrebbe essere vissuto in ambito sicuramente siciliano nel periodo, probabilmente, dell’espansione macedone. Di più le fonti non dicono.

Opera

Ateneo ci tramanda, di Archestrato, frammenti di un poemetto che riporta sotto vari titoli, tutti antichi: secondo lo stoico Crisippo si intitolava Gastronomia, secondo Callimaco Hedypatheia ossia, letteralmente, Poema del buongustaio, che è oggi il titolo più diffuso tra gli studiosi.
Il poemetto appare come una parodia dei poemi didascalici di sapore esiodeo molto diffusi in ambito filosofico. Del poema ci restano circa 300 versi, con in più un frammento di 11 versi dagli Hedyphagetica di Ennio XE “Ennio” : si tratta di versi in cui l’ironia è continuamente dosata con la descrizione di piatti e di mercati ittici, in una sorta di Odissea dei buongustai in cui predomina l’aspetto disimpegnato e di evasione tipico di certa commedia attica.
Archestrato XE “Archestrato” , a tal proposito, prende le mosse dalla storiografia, con i suoi incipit pragmatici, presentando una esposizione delle ricerche (SH XE “SH”  132) che rovescia parodicamente il proemio di Erodoto, così come la metafora del viaggio, che non è inconsueta nei poeti parodici che trattano di gastronomia: d’altra parte gli Hedypatheia sono tutti un viaggio alla ricerca di prelibatezze, così come quello di Erodoto era un viaggio alla ricerca della verità. Sembrerebbe esserci anche una parodia di Parmenide e del suo viaggio simbolico presso la Verità.

Ateneo è prodigo di elogi per il parodo, definendolo persino polyhistor, cioè di grande cultura (325d): in effetti, i frammenti del poemetto appaiono ben costruiti secondo un rovesciamento del tono ispirato dei poeti didascalici, per cui, dopo un proemio pragmatico con la consueta asserzione di dire il vero e di voler propagare la verità, segue una costruzione espositiva secondo la disposizione delle portate di un pranzo tipico del IV secolo.
Archestrato, infatti, oltre ad enumerare le specialità dei vari porti del Mediterraneo, segue poi – secondo quanto già rileva Ateneo (278b) – lo schema degli antichi peripli, enumerando pesci e ricette ittiche secondo la navigazione in senso orario. Infine, segue un’enumerazione delle carni, l’elogio dei vini più adatti al banchetto ed al seguente simposio, con l’indicazione del numero dei convitati, dei profumi da usare e persino dei dessert da offrire agli ospiti, il tutto con signorile “sprezzatura”. Gli ultimi versi di questi precetti, diretti, secondo il modello esiodeo, a due “discepoli”, Mosco e Cleeno, dovevano essere quelli di SH 192, con la tipica maledizione contro chi non segue i consigli sapienti del poeta.
Proprio la moderazione nella cucina e l’ostentato disinteresse per i piatti di “alta cucina”, nonché per i banchetti pantagruelici così diffusi in Grecia dopo i contatti con il mondo macedone e persiano, fecero ben presto dell’opera del poeta gelese uno spunto dei filosofi, non solo epicurei, per la critica al lusso. Ateneo ci dimostra quest’attenzione della filosofia ellenistica per questo poemetto riportando un’osservazione dello stoico Crisippo:

E così, amici miei, quando si tengono in conto questi fatti, si dovrebbe a ragione approvare l’atteggiamento del nobile Crisippo, per il suo acuto esame del  Sulla Naturadi Epicuro, ed il suo evidenziare che il cuore della filosofia epicurea è la Gastronomia di Archestrato, nobile poeta epico che a tutti i filosofi diede familiare nutrimento, che rivendica come Teognide il merito suo (104b).

Crisippo, a tutti gli effetti un vero filosofo, dice che Archestrato fu il precursore di Epicuro e di coloro che adottarono le sue dottrine sul piacere, causa di ogni corruzione (278f).

Archestrato, quindi, XE “Archestrato”  insegna a cucinare e disporre le portate in un vero poema didascalico-gastronomico, introdotto da una (seppur parodica) dichiarazione programmatica. Si tratta, dunque, di fornire “belle esortazioni secondo il modello del poeta ascreo” (secondo quanto osserva Ath. XE “Ath.”  III 101f), quindi di fare poesia didascalica, seppur divertendo.
Questo modello, seppur considerato di second’ordine, come la parodia, sarebbe poi stato massicciamente recepito nella poesia latina, specie nello pseudo-Virgilio del Moretum, nella satira II 6 di Orazio, che di Archestrato ricalca toni ed espressioni: l’immediato precursore della satira gastronomica oraziana sarà dunque da individuare in questo raffinato epicureo di Gela, messo in rapporto da Ennio o direttamente conosciuto da Orazio, data la grande cultura letteraria del venosino.

Fonte: Antonio D’Andria

TIMAGORA DI GELA

Il filosofo di Gela, allievo di Teofrasto e di Stilpone, visse tra il IV e il III secolo a.C. Parla di lui Diogene Laerzio (II, 113, 114):
“Stilpone di Megara di Grecia fu alunno di alcuni dei seguaci di Euclide, secondo altri dello stesso Euclide e secondo Eraclideanche di Trasimaco di Corinto, che era amico di Ictias. Per l’invenzione degli argomenti e per la capacità sofistica primeggiò tanto sugli altri che quasi tutta Grecia volse lo sguardo verso di lui e seguì la scuola megarica. Su di lui Filippo megarico così si esprime testualmente:
– Da Teofrasto attrasse a sé Metrodoro il Teoretico e Timagora di Gela (…) -“.
 (Op. cit.)
Purtroppo altro non si può dire sul sofista gelese, valendo anche per lui le deduzioni già portate avanti in considerazione del filosofo Simmia, che dovette aver frequentato Timagora assieme al maestro e genero Stilpone. La dottrina di Euclide che venne impartita a Timagora deriva dagli insegnamenti morali socratici descritti nei lavori di Platone. Ma questi vennero integrati dalle teorie portate avanti dalla scuola eleatica (sorta in Elea, in Campania); si giunse così a identificare il Bene supremo con l’Essere descritto da Parmenide. L’Essere teorizzato da Parmenide è uno ed eterno, ed è l’unica cosa che può essere oggetto dei pensieri umani se questi sono guidati da ragione e non dalle apparenze mostrate dai sensi. Parimenti, per Socrate (a quanto attesta Aristotele), solo la ragione può guidare l’uomo tra le incertezze delle opinioni dei singoli. Ma ciò che più attirò i discepoli, e Timagora tra essi, della scuola megarica in Socrate fu la concezione del sommo Bene sostenuta dal maestro umanissimo, da applicare in pratica e grazie all’ausilio della conoscenza, annullatrice con la ragione della malvagità.

ESCHILO

eschiloEschilo era figlio di Euforione di Eleusi e nacque nel 525 a.C. ad Eleusi, cittadina distante circa 20 km da Atene e centro dei culti misterici (vedi sotto).
Egli vide la fine della tirannide di Pisistrato, che fu continuata da  Ippia e Ipparco (560 – 527 a.C.) e assistette all’istaurazione della democrazia (510 a.C.).
Nel 490 a.C. Eschilo combatte a Maratona (1° Guerra Persiana) e forse nel 480 a.C.  combatte anche a Salamina. A proposito di questa data si è soliti dire che “mentre Eschilo commbatteva a Salamina, Sofocle intonava il suo primo Peana, ed Euripide nasceva”.
Eschilo fu un uomo di carattere profondamente religioso e patriottico. Sembra addirittura che fosse stato iniziato ai ‘Misteri’*.
Eschilo muore a Gela nel 456 a.C. dove era andato, attratto dal gruppo di letterati che si trovavano presso la corte di Gerone.
Eschilo esordì con le sue Tragedie nel V sec. a.C. e conseguì la 1° vittoria nel 484 a.C.
Le date di rappresentazione delle Tragedie di Eschilo ci derivano dalla tradizione manoscritta
(i ‘codici’ e la ‘Suda’ – vedi infra) e l’ordine in cui ci sono pervenute le opere ce lo tramanda il ‘Codex Medicaeus’:
1) “Persiani” anno di rappresentazione: 472 a.C.
2) “Prometeo Incatenato” anno di rrappresentazione: anni ’60 del V sec. a.C.
3) “Sette contro Tebe” anno di rappresentazione: 467 a.C.
4) “Orestea” anno di rappresentazione: 458 a.C.
5) “Supplici” anno di rappresentazione: 463 a.C.

Note per la Tragedia “Supplici”

La Tragedia “Supplici” fa parte della tetralogia: “Supplici – Egizi – Danaidi” + Dramma satiresco “Amimone”.
Per quanto riguarda la raffigurazione scenica, la troviamo situata nell’ orchestra, dove si vede un “pàgos – colle”, il quale si intende posto vicino ad Argo e sopra il quale si trovano statue di divinità, intorno a cui si rifugeranno le “Supplici/Danaidi”, quando saranno raggiunte dai promessi sposi, gli Egizi, dai quali sono fuggite.

Di questa Tragedia si hanno notizie recenti riguardo alla data.
In essa ci sono alcuni tratti apparentemente arcaici che la avevano fatta considerare il testo più antico scritto da Eschilo. Infatti, in questa Tragedia, troviamo la configurazione tipica del dramma, nella sua prima esistenza: dialogo fra 1 attore ed il Coro. Per questo, il dramma fu attribuito al “primo Eschilo”.
Ma da un papiro di Ossirinco, ritrovato nel 1952, appare che, verosimilmente, la trilogia con le “Danaidi”, fu rappresentata da Eschilo, in gara con Sofocle nel 463 a.C., quando questi sconfisse il collega. Quindi la data colloca l’opera negli anni ’60 e ciò la fa diventare non una delle prime Tragedie di Eschilo, ma una delle ultime!, e precisamente la penultima, quella cioè, prima dell’Oresta.

* I ‘Misteri’ erano culti segreti, nei quali avevano grande importanza le idee mistiche. Per accedervi bisognava superare un’iniziazione. Si pensa che gli ‘Antichi Misteri’ risalgano ad una religione ‘irrazionale’ pre-greca, che sopravvisse sotto forma di società segrete. Gli dèi connessi  ai ‘Misteri’ erano Demètra e Diòniso. I Misteri Eleusini sono i più famosi e conosciuti nel mondo antico. In origine era un culto agricolo sorto in età micenea, fatto in occasione della semina. Dopo l’unione di Eleusi con Atene, avvenuta prima del 600 a.C., lo Stato Ateniese assunse il controllo dei Misteri. I riti principali sono sconosciuti. Il ratto di Kore-Persefone da parte di Plutone è il tema centrale dell’inno omerico; si è pensato che esso fosse rappresentato nei Misteri, insieme con la restituzione di Kore a Demetra.

Come si è detto, dunque, ogni Tragedia faceva parte di una ‘tetralogia’, formata da 3 Tragedie + 1 Dramma Satiresco. Ecco di seguito quello che abbiamo potuto ricostruire con bastante sicurezza.
PERSIANI. Tragedia rappresentata nel 472 a.C.  Fa parte della tetralogia:
“Fineo – Persiani – Glauco Potnio” + Dramma Satiresco: “Prometeo”.
Per questa Tragedia abbiamo l’allestimento scenico nell’orchestra, che normalmente è destinata alle evoluzioni del Coro. Troviamo da una parte lo “stègos – casa”, o meglio la facciata della casa dove si riunivano i nobili Persiani. Da un’altra parte vi è il tumulo/tomba di Dario.
Fra lo “stègos” ed il “tumulo” rimaneva un ampio spazio scenico all’aperto, destinato al Coro e agli attori.
PER LA CONFIGURAZIONE SCENICA DELLE TRAGEDIE DI ESCHILO, VEDI INFRA.

PROMETEO

Tragedia rappresentata negli anni ’60 del V sec. a.C. Fa parte della tetralogia:
“Prometeo Incatenato – Prometeo Liberato – Prometeo Portatore di fuoco”, ma di quest’ultima non sappiamo se sia la 3° Tragedia, oppure il Dramma Satiresco.
Anche qui l’ambientazione è fatta nell’orchestra, dove vediamo un ‘pàgos – colle’ situato nella Scizia (Russia Meridionale – Ucraìna). Promèteo è inchiodato e quasi crocifisso alla roccia del “pàgos”.
SETTE CONTRO TEBE. Tragedia rappresentata nel 467 a.C. Fa parte della tetralogia:
“Laio – Èdipo Re – Sette contro Tebe” + Dramma Satiresco: “Sfinge”.
In questa Tragedia, lo spazio dell’ orchestra è così allestito.
Lo spiazo stesso rappresenta l’Acropoli di Tebe, la quale è di per sé rialzata, ma non lo è nella finzione scenica, dove gli spettatori la vedono dall’alto della cavea (vedi infra). Vi è anche un punto dove compaiono statue.
ORESTEA. Questa tragedia è rappresentata nel 458 a.C. Fa parte della tetralogia:
“Agamennone – Coefore – Eumenidi” + Dramma Satiresco: “Proteo”.
Per le 3 Tragedie abbiamo 3 ambienti diversi all’interno dell’ orchestra.
Per l’ AGAMENNONE, abbiamo la facciata della casa di Agamennone e Clitemnestra ad Argo. Questa presenta 2 porte; 1 principale; 1 secondaria: la seconda è l’ingresso della parte femminile.
Per le COEFORE, abbiamo la stessa facciata della casa ad Argo, e in più un elemento nuovo: il tumulo(tomba) di Agamennone, dove i due fratelli, Elettra e Oreste, eseguono preghiere per il padre.
Per le EUMENIDI, abbiamo 3 momenti e 3 rappresentazioni sceniche:
1) Prima siamo a Delfi all’interno del santuario di Apollo e appare sulla scena l’ onfalòs – altare, che è una pietra molto grande dove si rifugia Oreste inseguito dalle Erinni. Tutto intorno c’è il Coro formato appunto dalle Furie.
2) Poi si torna nuovamente ad Atene e ci troviamo sull’Acropoli, dove figura la brètas – antica statua di Atena.
3) nel 3° momento ci troviamo dentro l’Areopago sull’Acropoli di Atene. È stato tolto dalla scena quello che rappresentava a Delfi l’ onfalòs e ad Atene la brètas e sono rimasti a semicerchio i seggi occupati dal Coro, che adesso impersonifica i vecchi dell’Areopago.
A proposito di questa tragedia chiamata “Eumenidi”, sappiamo con certezza che essa non fu chiamata così da Eschilo, ma tale nome le fu dato successivamente in età tarda. Non sappiamo come la avesse chiamata Eschilo. Ma certo, dal momento che le Tragedie prendono, quasi sempre nome dal Coro, o da un personaggio che in esse figura, non l’ebbe chiamata “Eumenidi”, perché il Coro, per tutta il dramma rappresenta le Erinni, che solo all’ultimissimo istante diventano benevole per intercessione di Athena.

Breve riassunto delle 7 tragedie.

PERSIANI

È la storia della sfortunata spedizione di Serse contro la Grecia (480 a.C. 2° Guerra Punica), osservata nei suoi effetti, in casa del nemico a Susa.
I vecchi consiglieri del re sono ansiosi riguardo al destino toccato alle armate di Serse. Atossa, vedova di Dario, e madre di Serse, esce dalla reggia per consigliarsi con i vecchi, in quanto è turbata da un sogno che ha fatto e da un sinistro prodigio che ha visto.
Giunge un messaggero ad annunziare la sconfitta della flotta persiana a Salamina (480 a.C.).
A questo punto, evocata, appare l’ombra di Dario, dalla quale i Persiani apprendono che i mali per loro non sono finiti e altre sconfitte attendono le armate in Beozia e a Platea. L’ombra di Dario esorta i Persiani a non combattere più contro i Greci ed a riportare Serse alla ragione, poiché suo figlio ha peccato di ‘ύβρις – ùbris – “orgoglio/tracotanza” e questo molto dispiace agli dèi.
Scompare l’ombra di Dario.
Giunge Serse disfatto e si lamenta insieme al Coro di tutti i morti che ci sono stati ed esterna ai coreuti il suo dolore.

PROMETEO

Assistiamo all’inchiodamento di Prometeo ad una rupe, nella Scizia (Russia meridionale – Ucraìna). Egli è punito da Zeus, perché ha rubato il fuoco agli dèi e lo ha donato agli uomini. Prometeo è confortato dal Coro formato dalle Oceanine, alle quali il dio racconterà gli avvenimenti che hanno deciso la sua sorte. Giunge Oceano, padre delle Oceanine, e tenta invano di riconciliare Prometeo e Zeus.
Giunge Iò, in forma di vacca e in preda al delirio. Ad essa Prometeo presagisce la fine del suo errare sotto forrma di vacca.
Giunge Hermes. Egli vuole carpire a Prometeo il segreto di quelle nozze che, se compiute, porterebbero alla detronizzazione di Zeus. Prometeo non si piega alla richiesta e viene sprofondato nelle viscere della terra insieme con le Oceanine.

SETTE CONTRO TEBE

Eteòcle, re di Tebe e figlio di Èdipo, si prepara a ricevere l’assalto alla città condotto alle sue sette porte da sette valorosi, fra i quali figura anche suo fratello Polinìce.
Polinìce si vuole vendicare, perché è stato privato da Eteòcle del diritto al regno, ed è stato anche bandito dalla città. Le donne del Coro si disperano per l’imminente rovina. Eteòcle cerca di tenerle calme. Un messaggero informa il Re riguardo ai 7 capi nemici. A ciascuno di essi Eteòcle oppone un guerriero tebano adatto. A se stesso riserva lo scontro con il fratello Polinìce.
La maledizione che Èdipo aveva imposto su i due figli, colpevoli di averlo mal trattato da vecchio, adesso si avvera. Infatti un nunzio riferisce che i due fratelli si sono uccisi a vicenda.
Vengono portati in scena i cadaveri.
Su di essi il Coro intona il canto funebre, mentre Ismene e Antigone, piangono i fratelli morti.
I magistrati di Tebe ordinano che Eteòcle venga sepolto e che Polinìce venga gettato ai cani.

ORESTEA (trilogia: Agamennone – Coefore – Eumenidi)

AGAMENNONE

Dall’alto della reggia di Argo una vedetta avvista i fuochi che segnalano la caduta di Troia. La vedetta corre ad avvisare la regina Clitennestra.
Così si ‘apre’ l’ ‘Agamennone’.
Clitennestra, moglie di Agamennone e madre di Ifigenìa, dà la notizia al Coro, il quale è sempre oppresso dal ricordo di Agamennone, che, per propiziarsi gli dèi, nella spedizione a Troia, aveva sacrificato ad essi la figlia Ifigenìa.
In realtà, proprio per questo motivo, Clitennestra, insieme al suo amante Egisto, si appresta ad assassinare Agamennone, al suo ritorno.
Agamennone arriva su un cocchio, portando da Troia, come propria concubina, Cassandra, sacerdotessa di Apollo e figlia del defunto Priamo, re di Ilio.
Per 3 volte Cassandra, non creduta, vaticina ciò che sta per succedere nella reggia.
[Cassandra vaticinava il futuro, ma non era mai creduta. ciò perché la donna una volta si era rifiutata al dio Apollo che la concupiva. Il dio, respinto, maledisse Cassandra con questo destino: vaticinare il vero, ma non essere mai creduta.]

Il Coro piange il re ucciso e rinfaccia alla regina il suo crimine.
Giunge Egisto che si dichiara ‘nuovo signore della citta’. Il Coro impugna le armi contro di lui, ma Clitennestra impedisce lo scontro.
il Coro invoca Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra.

COEFORE

[* χοηφόρος – khoefòros “portatore di libagioni.] Oreste è rientrato di nascosto ad Argo, dall’esilio, insieme all’amico Pilade. Oreste era stato esiliato da Egisto e Clitennestra, perché non fosse loro di ostacolo nel condurre i propri piani di vendetta. Oreste è nascosto e vede delle fanciulle che vanno al sepolcro di Agamennone. Sono le prigioniere troiane, che portano libagioni.Esse sosno state mandate da Clitennestra
(ed insieme a loro c’è anche la sorella diOreste, Elettra), perché è atterrita da un incubo notturno. Clitennestra ha mandato dunque le Coefore con doni, per placare il morto Agamennone. La giovane Elettra, impreca contro gli assassini di suo padre. All’improvviso, essa vede un ricciolo sulla tomba di suo padre e subito pensa a suo fratello Oreste, il quale adesso esce allo scoperto e si fa riconoscere da lei solamente.
Fratello e sorella si spronano vicendevolmente alla vendetta; il Coro partecipa con loro.
Oreste, sotto mentite spoglie, si presenta alla madre Clitennestra, alla quale racconta che suo figlio Oreste è morto. Egisto raggiunge il mendicante (Oreste) per avere ulteriori informazioni, ma si sente un grido che indica la sua morte. Clitennestra accorre subito e si trova davanti suo figlio Oreste che tiene in pugno la spada con la quale ha appena ucciso Egisto. A questo punto c’è un’esitazione da parte di Oreste per quanto riguarda la sorte della madre, ma Pilade lo esorta ad ucciderla.
Oreste mostra al Coro i due cadaveri e all’improvviso è preso dall’orrore del commesso matricidio.
Già gli appaiono le Erinni*, e Oreste, disperato si dà alla fuga.
[* le Erinni sono le Furie. divinità infernali specificatamente preposte a perseguitare coloro che si erano macchiati di delitti di consanguinei. Esse perseguitavano la vittima fino a farla impazzire.]

EUMENIDI

[Come le “Coefore”, anche questa tragedia prende il nome dai personaggi del Coro; solo che in questo caso i personaggi del Coro sono le Erinni. Il nome“Eumenidi”, infatti, non fu dato da Eschilo (il quale non sappiamo come avesse veramente chiamato la Tragedia), ma dalla ‘Tradizione Manoscritta’, perché, alla fine della Tragedia, da cattive che sono, le Erinni, diventano ‘buone’, cioè, appunto, ‘Eumenidi’]
Si apre la Tragedia con le Erinni – il Coro – che dormono, accucciate come cani, intorno ad Oreste, che si trova, supplice, presso l’Oracolo di Apollo a Delfi.
Apollo si mostra all’omicida; lo rassicura e gli dice di andare ad Atene, sotto la scorta del dio Hèrmes; poi scaccia dalla sua dimora le immonde Erinni.
Adesso Oreste si trova nel tempio di Atena sull’Acropoli di Atene, presso l’antica statua della dea: la βρέτας – brètas. L’omicida implora la dea che lo aiuti, mentre le Erinni lo hanno nuovamente raggiunto e stanno per lanciarsi su di lui. Appare Pallade Atena, la dea, che convince le Erinni a rimettere ogni decisione all’Areopago, il Tribunale degli Ateniesi, preposto ai fatti di sangue.
[Si ricordi che con le riforme di Efialte e Pericle nel 462 a.C.  – l’ ”Orestea” è del 458°.C. –
all’ Areopago, composto dai nobili, erano stati tolti tutti i poteri politico-giuridici, per porli nelle mani del popolo, mentre all’Areopago rimanevano solo i fatti di sangue.]
Dinanzi ai giudici le Erinni sono le accusatrici, mentre Apollo è il testimone-difensore. Alla fine, con il voto di Atena a favore di Oreste, si ha parità di voti che equivale all’assoluzione. A questo punto le Erinni, infuriate, minacciano l’Attica con ogni sorta di male, ma Pallade Atena le placa, promettendo loro onore eterno nella città di Atene. Una processione, quindi, scorta le Erinni nell’antro dove saranno venerate come dèe dispensatrici di prosperità. In questo senso, e da ultimo, le Erinni da cattive, diventano buone, ma non si può certo, con questo ‘poco’ giustificare il titolo.

SUPPLICI

Arrivano su un poggio sacro vicino ad Argo le 50 figlie di Danao, le quali sono fuggite dall’Egitto, per evitare il matrimonio con i loro cugini. Il re di Argo, Pelasgo, vorrebbe accogliere le fanciulle, che chiedono protezione in città, ma esita per paura delle possibili ritorsioni degli Egizi. Sotto la minaccia di un suicidio di massa, che le giovani promettono, e il quale contaminerebbe il recinto sacro presso cui si trovano, il re è costretto a portare la questione davanti al popolo. Esso concederà alle giovani diritto di asilo. Gli Egizi, intanto sbarcano per riprendere le promesse spose fuggite, ma sono respinti da re Pelasgo e dalle sue armate. È l’inizio di una guerra che si profila atroce. le Danaidi (le 50 figlie di Danao) si avviano verso Argo inneggiando al proprio trionfo sui maschi.

Fonte: Biblio net

EUCLIDE

euclideNoi gelesi lo sappiamo!

Euclide è gelese, lo sappiamo da tanto tempo e non siamo stati capaci di gridarlo al mondo intero per farne prendere notizia di verità. Recentemente ci ha riprovato un insigne gruppo di studiosi di storia patria a fare ricerche approfondite e portando a testimonio scritti di vari tempi che confermano e convalidano le nostre certezze.
Euclide è gelese di nascita.
Ecco l’epilogo di queste approfondite ricerche.
Nel salone del municipio davanti al popolo gelese, intervenuto in grandissimo numero e con grandissimo interesse, il professore Giuseppe Blanco, in nome di tutti gli storici gelesi, prende la parola, emozionatissimo per l’importanza del momento, ed annuncia la solenne frase. Euclide, il grande scienziato di matematica, è gelese, è nato a Gela e quest’oggi ci accingiamo a dimostrare che in questa frase si racchiude la verità.
Saltiamo i convenevoli di prammatica ed iniziamo con la vera e propria relazione. (ndr)

1° teorema: “In ogni triangolo rettangolo il quadrato costruito su un cateto è equivalente a un rettangolo formato dalla ipotenusa e dalla proiezione normale del cateto sull’ipotenusa”.

2° teorema: “In ogni triangolo rettangolo il quadrato costruito sull’altezza relativa all’ipotenusa è equivalente al rettangolo formato dalle proiezioni normali dei due cateti sull’ipotenusa”

V postulato: “Per ogni punto del piano si può condurre una retta, e una soltanto, parallela a una retta data non passante per il punto”.
Sono, questi che ho letto, i teoremi di Euclide e un postulato dello stesso Euclide relativi al triangolo rettangolo enunciati in maniera semplice ed elementare che chi ha studiato la geometria ( e l’abbiamo studiata tutti) conosce. Forse qualcuno li ha dimenticati, e il primo ad ammettere ciò sono io, ma non abbiamo dimenticato il nome di Euclide e la sua fama nell’essere il padre della geometria, perché anche oggi, dalla scuola media all’università, la geometria che si studia è quella euclidea, così perfetta, così logica, così vera che 23 secoli di storia non hanno potuto scalfire. E’ un granito solido e possente nel campo della matematica che resiste al tempo perché improntato alla verità e alla logica delle cose.
Ma ci era Euclide? Non scopro nulla di nuovo quando affermo che era ed è, assieme ad Archimede e al Apollonio, questi due ultimi a lui posteriori, uno dei più grandi matematici che la scienza abbia mai avuto nei secoli: anche oggi attuale. Uno dei più grandi, se non il più grande geometra dell’antica Grecia.
A tutti gli spiriti eletti che la vecchia civiltà ci tramanda, trova posto in essa il nome di Euclide, noto ed arcinoto nella matematica, o per meglio dire nella geometria. Se prendiamo una comune enciclopedia e ci soffermiamo alla voce “Euclide” ne possiamo leggere ben sei. Vediamoli tutti questi Euclide per la nostra curiosità e per meglio organizzare certe nostre conoscenze

I Euclide – Arconte di Atene nell’anno 402 A.C. . Egli ristabilì nella sua patria la democrazia dopo aver espulso con la forza (Trenta tiranni) e sotto il suo arconato la Grecia ebbe più pace e adottò ufficialmente l’alfabeto ionico.

II Euclide – Artista ateniese che operò in Grecia intorno al 250 a.C. Scultore eccelso, si attribuiscono a lui varie opere per le quali le fonti letterarie talvolta non concordano. Ma tutte sono del parere nell’affermare che egli scolpì una colossale testa di Zeus che oggi si trova nel museo nazionale di Atene.

III Euclide – Scultore e incisore della zecca siracusana. Egli operò per circa un ventennio dal 440 al 420 a. C. Firmò tutte le sue opere, ma la più bella moneta a noi pervenuta è il tetragramma di Siracusa nel quale, da una parte si vede una testa di donna e dall’altra parte una quadriglia guidata da Aretusa verso la quale viene incontro una vittoria alata. Sotto la quadriglia è incisa una bella spiga quasi a voler significare la fertilità dei campi siciliani.

IV Euclide – Euclide di Megara (450 – 380 a. C.). Filosofo e scolaro di Socrate. Aprì una scuola a Megara e ivi accolse i discepoli di Socrate quando quest’ultimo fu condannato, 399 a. C. dall’aristocrazia ateniese a bere la cicuta. Ebbe come alunno Platone e il grande filosofo lo ricorda nel Teeteto con stima e riconoscenza per averlo istradato nello studio della filosofia.

V Euclide – Matematico greco. Pare che sia morto intorno al 310 a. C. Geometra e padre della geometria moderna. Scrisse, tra le altre cose, una vasta opera che intitolò Elementi che riscosse grande fortuna presso i greci, i romani, nel Medio Evo e nel Rinascimento. Si tratta di ottimi studi per l’apprendimento della geometria e della matematica. Cicerone parla di lui con entusiasmo nel terzo libro De oratione.

L’ultimo, o l’ultima Euclide, la VI, è una città degli Stati Uniti d’America, in inglese Euclid. Si trova nell’Ohio a nord-est di Cleveland e conta circa 65 mila abitanti. E’ una città industriale, diciamo così, scientifica, dove esiste un rinomato istituto di matematica, dove si fabbricano parti meccaniche di aerei e dove ci sono industrie elettriche e cose del genere. Porta questo nome in omaggio a Euclide, grande matematico ed eccelso geometra.
Abbiamo visto così chi era Euclide che tanto ci interessa da vicino e tutti gli altri Euclide che le enciclopedie registrano per una corretta e sufficiente informazione del lettore.
Se avete notato bene, attraverso da me fatto degli Euclide della storia, di tutti ci sono notizie e date. Se poi sfogliamo le enciclopedie apprendiamo altri fatti, nomi di città, attività svolta il tutto con una certa precisione. Soltanto di uno, il quinto, quell’Euclide per il quale noi siamo qui stasera, non si parla di date e si danno pochissime, insignificanti notizie sulla sua vita. Si parla ampiamente però delle sue opere e specialmente degli Elementi che sono la base fondamentale per lo studio della geometria. I libri di scienza nulla ci fanno sapere limitandosi ad enunciare e dimostrare teoremi e postulati che servono a rischiarare le idee di chi studia la geometria nella scuola o da applicare nella vita.
L’enciclopedia Treccani dedica al nostro Euclide due colonne e scrive “Matematico greco”, la UTET afferma “famosissimo matematico greco”, l’enciclopedia Rizzoli- Larousse sentenzia “matematico greco vissuto nel terzo secolo a. C.”. Un’altra enciclopedia, la UTET edita nel 1879 e curata da Gerolamo Boccardo, ci fa sapere su per giù le stesse cose, ma scrive testualmente che “la storia non ci ha tramandato né la patria né gli avvenimenti particolari della sua vita”. Ed aggiunge: “Gli Arabi che tradussero i suoi libri di geometria che acquistarono all’autore una popolarità e una fama non ancora diminuita da venti secoli, vollero supplire all’oblio della storia e fecero Euclide nativo di Tiro (oggi Libano) e figlio di un abitante di Damasco (Siria), ma queste asserzioni non sono appoggiate da nessun documento storico. Ciò che è certo, egli abitò la Grecia e ne frequentò le scuole…”.
Quindi è chiaro che Euclide non fu greco di nascita – il che è una cosa ovvia – ma fu greco di adozione per avervi abitato e lavorato in una età successiva al giorno in cui vide la luce.
Perché se fosse nato in Grecia, allorquando divenne famoso e specie dopo la morte, quell’ipotetica città ellenica che gli aveva dato i natali chissà come si sarebbe vantata di aver visto nascere un uomo, uno scienziato così illustre. Dunque, essendo assodato che Euclide non emise i primi vagiti in Grecia e non credendo a Tiro che ne aveva fatto suo grande cittadino e non rivendicando ufficialmente la Grecia il luogo nel quale Euclide aprì gli occhi e vide la luce del sole, ci vien lecito chiedere: ma dove nacque effettivamente questo Euclide?

nota euclidePrima di citare la città che secondo alcuni documenti dei secoli scorsi diede i natali al grande geometra, c’è da dirimere una questione, c’è da correggere un errore in cui corsero gli storiografi di molti secoli addietro. Pare che Giorgio Valla, verso la metà del XV secolo, traducendo parte delle opere del nostro Euclide e commentandole, abbia scritto Siculus parlando del nostro illustre matematico. Certo, non l’ha inventato questo aggettivo. Un critico o uno storiografo non inventa nulla, se è serio e coscienzioso, naturalmente. Si limita a riportare e commentare quello che legge e apprende. Questo siculus fece confondere il matematico Euclide con Euclide di Megara, quello che io ho citato prima con il numero IV.
Perché quella confusione? Perché Megara che si appoggia al nome di Euclide fu erroneamente creduta come la Megara, di Sicilia l’odierna Augusta. E in questo errore persistono altri ed anche l’enciclopedia Rizzoli-Larousse. La Megara, patria dell’Euclide filosofo, non era la Megara di Sicilia, bensì Megara di Grecia una cittadina che esiste ancora con lo stesso nome e che si trova tra Eleusei e Corinto a nord di Salamina. Non errano però i libri di letteratura greca i quali parlano di una scuola megarica di filosofia in Grecia fondata, diretta e vivificata da quest’altro Euclide nato quasi un secolo prima del nostro Euclide. Io ho consultato per tutti, due testi di letteratura greca: il Bignome sul quale studiai io quando ero al liceo e quello di Francesco Ballotto, moderno, ricco di notizie e assai valido sotto il profilo della problematica moderna.
Il superiore errore continuato nel tempo fece confondere i due Euclide per cui a Euclide di Megara furono perfino attribuiti gli Elementi dell’Euclide matematico. Scrive ancora l’enciclopedia UTET del 1879: “Tanta era l’oscurità in cui avvolgevasi la vita di sì grande geometra che da lungo tempo fu confuso con Euclide di Megara, discepolo di Socrate”. In questo errore caddero e proprio questo errore perpetuarono Campano Da Brescia (sec. XIII) e Nicolò Tartaglia (sec. XVI) che sono due noti commentatori dell’opera del nostro Euclide.
Aggiungo ancora a sostegno di questa tesi che Euclide di Megara non si sognò mai di venire in Sicilia e la storia ci tramanda – e questi molti lo sanno – che Euclide megarese si sottopose a varie peripezie per andare ad ascoltare ad Atene le lezioni di Socrate dato che Megara fu sempre in lotta con Atene e ai megaresi fu proibito di mettere piede ad Atene. Una volta Euclide si travestì da donna per entrare in Atene, un’altra volta da sacerdote e un’altra volta ancora da schiavo. Megara di Grecia dista da Atene una cinquantina di chilometri ed Euclide poteva intraprendere benissimo questo viaggio in un giorno e mezzo o due e poi ritornarsene a casa.. Vi immaginate fare questo viaggio spesso dalla Sicilia in Grecia? Certo con l’aereo poteva essere possibile, ma allora l’aereo non c’era e nemmeno risulta che il filosofo avesse usato le ali di Icaro.
Dunque stabilito che Euclide di Megara non nacque e non fu mai in Sicilia e quindi siculus non poteva essere, quel siculus era da attribuirlo al geometra Euclide, autore degli elementi e padre della geometria. Questo Euclide, ed è finalmente ora di dirlo, nacque a Gela, in questa terra antica e grandiosa nella quale il destino, per legarla di più alla Grecia e alla sua cultura, fece morire nel 456 a. C., un secolo e mezzo prima di Euclide, il grande trageda Eschilo che qui venne mandato dagli dei per dare più ordine alla sua personalità, dato che qui fece rappresentare, pare, qualche sua tragedia.
Il Geometra Euclide, dunque, nato a Gela! E’ una notizia che ci riempie di orgoglio e che desta la nostra meraviglia e la nostra curiosità. Egli aumenta la lunga schiera di gelesi figli illustri di questa terra, da Gelone a Gerone, dal filosofo Pausania all’altro filosofo Archestrato, da Apollodoro a Timagora a Guido delle Colonne rinomato cantore dell’epoca federiciana, nomi che io prelevo dal libro Memorie Gelesi del dotto storico Salvatore Damaggio Navarra.
Scriveva il Damaggio Navarra nel 1896 a pag. 38 del citato libro: “Vanta questa città molti uomini illustri tra i quali…Euclide, eccellentissimo geometra, padre delle matematiche. Fu allievo di Platone in Atene e insegnò geometria in Alessandria…”.
Partendo da questo autore abbiamo voluto vederci chiaro su una notizia nota ma dimenticata. Il libro del Damaggio è ricchissimo di note su ogni argomento che egli tratta, e nel caso in specie egli cita il Maurolico (1494-1579) e il Mongitore (1663-1743).

Sono andato alla ricerca di queste fonti e sentiamo cosa afferma il Murolico a pag. 21 libro I del suo volume Storia di Sicilia: “Euclides gelesis philosophus platonicus ac geometra praestantissimus…”. 
Questi volumi sono passati al vaglio di numerosi lettori e critici e nessuno, dico nessuno, ha mai avuto qualcosa da dire né mai si sono sognati di smentire anche in parte le affermazioni dei due sommi storici siciliani, Di Messina il primo e di Palermo il secondo.

Ma la mia indagine non è finita qui. Scrive Vito Amico (1697-1762) di Catania, storico valente, a pag. 493 del suo Dizionario topografico della Sicilia, edizione del 1858: “Euclide celeberrimo geometra, credesi da alcuni di Megara, fu invero da Gela… fiorì nella CXIV olimpiade e un gran nome acquistò appo tutti i venturi…”. Benedetto Candioto nei suoi Saggi storici di Sicilia ci fa sapere: “Euclide gelense fiorì non solo nella filosofia, ma pure nella geometria e in altre scienze”. 
Carlo Filiberto Pizolanti scrive nella sua opera Delle memorie istoriche dell’antica città di Gela (XVIII sec.) a pag. 204, ristampato recentemente da Forni, Bologna: “Euclide geometra celeberrimo autore de’ rinomati Elementi, fu siciliano, cittadino di Gela, come ben prova da molti scrittori…e fiorì circa l’olimpiade CXIV”.
Orbene, leggendo attentamente quello che dice il Maurolico, sempre nel’opera da me citata, apprendiamo. “Fuit gelous ut ex verbis Laerty colligitur…” (fu geloo come si deduce dalle parole di Laerzio).

Fonte: Archeoclub Gela

statua euckide(Ndr) Arrivati a questo punto possiamo dire con sicurezza che i genitori erano gelesi e che generarono un figlio sempre a Gela a cui vollero dare il nome di Euclide e che, Euclide ancora pargolo, forse durante una delle tante guerre che si svilupparono in quei tempi, per la conquista del territorio, non sappiamo se con la famiglia o con dei parenti, emigrò in Grecia per sfuggire alle persecuzioni a cui i vincitori sottoponevano i vinti.
Eucliade non parlò mai con nessuno delle sue origini forestieri ad Atene sia, forse, perché non ricordava nulla della sua patria di origine sia perché voleva vivere sullo stesso piano dei suoi amici e non da forestiero.
Euclide scrisse e pubblicò diverse opere e trattati come Ottica, Catottrica, Dati, Elementi, Porismi, Fenomeni, Sectio canonis, Introducio armonica, ecc..
La storia a volte è crudele, pensiamo alle tante rovine che sopportò Gela e con essa i documenti e le persone che si tramandavano questi documenti per interposta persona o da padre in figlio sotto forma di narrazione, come la storia ci insegna.
Quanta storia si è perduta in questo modo!
Ciononostante possiamo dire che la Sicilia sin dall’antichità ha avuto eminenti uomini di prestigio come Diodoro di Agira, Stesicoro di Catania, Empedocle di Agrigento, Archimede di Siracusa, Euclide di Gela e tanti e tanti altri ancora.
Stasera anche il nostro Euclide sarà contento perchè, finalmente, dopo tantissimi secoli ha ritrovato la sua patria, la sua terra di origine di cui noi siamo chiamati a rinnovarne le prestigia.